I boschi montani. Ecologia e botanica
I boschi montani
Bosco lussureggiante nella Riserva Abetina di Rosello (CH) – Foto Colazilli
Introduzione
Il paesaggio montano, sul nostro Appennino, è dominato da due grandi tipologie vegetazionali strutturalmente molto diverse: le praterie, che nelle aree culminali sono caratterizzate da una storia autonoma svincolata dalla dinamica forestale, ed i boschi, di cui il più significativo e vigoroso rappresentante, di grande capacità costruttiva, è il Faggio al quale, ormai in modo sporadico, si accompagna l’Abete bianco.
Nella fascia montana sono rappresentati anche altri boschi, dominati soprattutto dalle Querce (principalmente il Cerro e, nelle aree a minore altitudine, la Roverella) e dai Carpini, boschi che, pur di grande interesse e importanza per i loro attributi floristico-ecologici e naturalistici, in genere non riescono a competere con l’imponenza fisionomica delle faggete. Per tale motivo, ma anche per evitare di essere dispersivi in così breve spazio, ci soffermeremo soprattutto ad illustrare, nei loro aspetti botanici ed ecologici, i boschi di Faggio, senza trascurare comunque, con brevi descrizioni, le altre tipologie come i boschi di forra, le cerrete, i castagneti, i boschi di Carpini e le pinete a Pino nero, focalizzando la trattazione sulle formazioni dell’Appennino Abruzzese.
Le faggete
Il più genuino paesaggio montano ha inizio, come si accennava, con il bosco di Faggio, che prende il sopravvento quando il clima, salendo di quota, tende a diventare umido, di tipo oceanico, o comunque meno continentale, e più fresco: ciò accade, sull’Appennino, tra i 1000 ed i 1800 metri circa, dove non di rado persistono le nebbie, che compensano così le condizioni di una certa aridità di alcuni versanti.
Sulla catena appenninica il paesaggio del Faggio (e dell’Abete bianco) assume connotati di esclusività, in quanto le oscillazioni climatiche del passato hanno qui cancellato le altre presenze di conifere ed in particolare quella dell’Abete rosso, che oggi persiste solo in alcune aree dell’Appennino settentrionale, oltre che, notoriamente, lungo tutto l’arco delle Alpi. Tracce di altre conifere, nelle aree altomontane dell’Appennino centrale, sono solo quelle costituite dal Pino mugo che però assume qui un portamento prostrato e che, un tempo più diffuso, è oggi presente, con significato residuale e relittuale, solo sul massiccio della Majella e, più sporadico, nel Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise.
I Faggi (genere Fagus) sono piante arboree, ma in condizioni sfavorevoli anche a portamento arbustivo, che rivestono grande importanza forestale ed economica per gli svariati usi del legname. Il genere è diffuso nelle zone temperate dell’Eurasia e dell’America settentrionale. In Italia è presente con un sola specie: Fagus sylvatica. Il termine Fagus deriverebbe dal verbo greco phagò, con significato di “mangiare”, riferito ai semi commestibili; il significato è quindi legato all’importanza che il Faggio dovette avere nell’alimentazione umana, soprattutto prima dell’avvento dell’agricoltura. Il nostro Faggio è un albero longevo, che può raggiungere l’altezza di 40 metri, a tronco dritto e cilindrico e chioma densa. La corteccia è liscia, sottile, di colore grigio-argenteo, spesso ricoperta di licheni. Le foglie hanno una lamina ovato-ellittica, lunga fino a 10 centimetri e larga fino a 7, a margine intero e leggermente sinuoso, verde-scuro e lucida di sopra, più chiara di sotto, con peli presenti sul margine e alle ascelle delle nervature. La pianta è monoica; i fiori sono disposti in infiorescenze unisessuali: quelle maschili sono rotondeggianti, con molti fiori, lungamente peduncolate e pendenti; quelle femminili sono erette, formate da due-tre fiori situati in un involucro provvisto di spine erbacee non pungenti; l’impollinazione è anemogama. I frutti, detti faggiole, sono delle noci di forma piramidale lunghe 1-2 cm racchiuse, in numero di due, nell’involucro dell’infiorescenza che a maturità è lignificato (cupola) e che si apre in 4 valve. Fiorisce ad aprile-maggio e matura i frutti a settembre-ottobre.
Faggete nel Parco Nazionale della Majella – Foto Colazilli
L’intervallo altitudinale entro il quale vive il Faggio ha il suo optimum compreso tra i 600 e i 1300 m sulle Alpi e tra i 1000 e i 1700 m sugli Appennini. Teme i periodi di aridità, le gelate primaverili, i venti secchi ed il ristagno di acqua nel suolo. Il suo areale si estende dall’Europa all’Asia occidentale. In Italia è presente in tutte le regioni, esclusa la Sardegna. In Abruzzo vive nei territori montani di tutta la regione e stupendi boschi di Faggio sono presenti sui principali massicci. Il legno, duro e di colore roseo, è di facile lavorabilità ed è impiegato per fabbricare mobili, compensati, traverse ferroviarie, per lavori da intaglio e tornio, per produrre cellulosa. Il legno e il carbone sono ottimi combustibili. I semi, commestibili, erano un tempo utilizzati dall’uomo per la propria alimentazione e quella degli animali domestici, soprattutto dei maiali. Le “faggiole” erano impiegate anticamente per la preparazione dei famosi confetti di Sulmona. Dalla spremitura delle faggiole in appositi mulini si otteneva un olio, utilizzato sia come combustibile che come condimento.
Il bosco di Faggio chiude, generalmente, la zonazione altitudinale del manto forestale. La forma di governo dominante è il ceduo, ma non mancano esempi di fustaie, a volte con Abete bianco. Anche se il Faggio tende a formare popolamenti più o meno puri, alle quote inferiori, in condizioni maggiormente xerotermiche rispetto al suo optimum, la faggeta è caratterizzata da aspetti misti con Aceri, Carpini, Ornielli, Cerri, ecc., mentre nella fascia più elevata, oltre i 1300-1400 metri, il Faggio, con l’accentuarsi di un clima più fresco ed umido, diventa dominante.
Sul piano sia floristico-ecologico che fitogeografico, il panorama relativo alle faggete abruzzesi è ampio e articolato. I fattori climatici discriminano, innanzi tutto, due grandi gruppi: quello delle faggete termofile, nell’orizzonte montano inferiore (in genere fino a 1300-1400 m circa), e quello delle faggete microterme, di pertinenza dell’orizzonte montano superiore. Le faggete termofile, con larga autonomia fitogeografica, formano un gruppo di associazioni endemiche dell’Appennino meridionale con propaggini in vari settori dell’Appennino centrale, caratterizzate, sul piano floristico, da un contingente differenziale di specie erbacee del sottobosco quali Geranium versicolor, Anemone apennina, Lamium flexuosum, Cardamine chelidonia, oltre che da un albero endemico dell’Appennino centro-meridionale: l’elegante Acero di Lobel (Acer cappadocicum subsp. lobelii). Frequente, in queste faggete, è l’Agrifoglio (Ilex aquifolium); più sporadico è invece il Tasso (Taxus baccata). Le faggete microterme chiudono la zonazione altitudinale del bosco nell’Appennino centrale e sono caratterizzate da un sottobosco che si differenzia, rispetto alle faggete termofile, per la presenza di un altro contingente di specie tra le quali si segnalano Geranium nodosum, Saxifraga rotundifolia, Polystichum aculeatum, Adenostyles glabra, Cardamine kitaibelii, Cardamine enneaphyllos.
Una ulteriore discriminazione è relativa alla reazione del suolo, che si riflette anch’essa sulle combinazioni floristiche e che permette si distinguere associazioni di faggeta neutro-basifila e di faggeta acidofila. Quest’ ultima si afferma sui substrati litologici del flysch, diffuso soprattutto sui Monti della Laga, ed è caratterizzata dalla presenza di specie acidofile quali Veronica urticifolia, Solidago virgaurea, Luzula sylvatica, Deschampsia flexuosa, Vaccinium myrtillus, Oxalis acetosella.
Sporadicamente, in aree a clima meno spiccatamente oceanico, è presente, nelle faggete della Laga, del Gran Sasso e dell’Abruzzo meridionale ai confini con il Molise, in forma relittuale/residuale, anche l’Abete bianco (Abies alba). In passato le abieti-faggete erano molto diffuse, come dimostrano le analisi polliniche, e costituivano il tipo di bosco più evoluto della catena appenninica. Oggi la presenza dell’Abete è divenuta rara sia a causa delle variazioni climatiche che hanno favorito il Faggio, sia a seguito degli interventi antropici che hanno eliminato la Conifera da molti territori.
Un altro albero di rilevante interesse, presente nelle faggete, è il Tasso (Taxus baccata), in Italia oggi sporadico, legato alle stazioni più umide e con scarse oscillazioni termiche, come relitto di una flora terziaria preesistente alle glaciazioni quaternarie. In Abruzzo si può osservare, quasi sempre molto localizzato, sia nelle faggete termofile che in quelle microterme, oltre che nei boschi misti mesofili di forra.
Un cenno merita anche la Betulla (Betula pendula), importante relitto glaciale presente in varie località della regione (M. della Laga, Gran Sasso, contrafforti dell’Altopiano di Cascina, Sirente-Velino, Majella, Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise). Si tratta di piccoli nuclei localizzati in un intervallo altitudinale compreso tra i 1000 ed i 1700 m circa e costituiti da esemplari sparsi o a piccoli gruppi nei pascoli e nelle radure o da comunità che in molti casi sono localizzate ai margini delle faggete, a volte ai limiti superiori del bosco su suoli poco evoluti con detrito di falda.
Boschi nel Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga – Foto Colazilli
I boschi di forra
I boschi di forra e di fondovalle, montani e submontani temperato-freschi, presentano una localizzazione fortemente condizionata dalle caratteristiche del substrato, determinate dall’accumulo di materiale detritico proveniente dal disfacimento del versante e di materiale organico che favorisce la pedogenesi di suoli profondi, eutrofici e ben drenati. Lo strato arboreo risulta formato da varie latifoglie mesofile e principalmente dall’Acero di monte (Acer pseudoplatanus), dal Tiglio nostrano (Tilia platyphyllos subsp. platyphyllos), dal Frassino maggiore (Fraxinus excelsior), dall’Olmo montano (Ulmus grabra) e dall’Acero opalo (Acer opalus subsp. obtusatum); spesso è presente anche il Faggio.
Nell’Italia meridionale, verso nord fino all’Abruzzo meridionale, questi boschi sono spesso impreziositi dalla presenza del già citato Acero di Lobel (Acer cappadocicum subsp. lobelii). La maggior parte di questi alberi sono annoverati tra le latifoglie “nobili”, quelle cioè che, presenti sporadicamente nei nostri boschi, possiedono caratteri di relativa rarità e di particolare pregio tecnologico, estetico e naturalistico. Anche il sottobosco mostra una composizione che riflette l’accentuata mesofilìa dei popolamenti, con numerose specie tipiche delle faggete. Questi boschi hanno un areale a baricentro atlantico-europeo e in Italia sono ben rappresentati sulle Alpi mentre, anche a causa delle lacune nella ricerca di campo, sono poco noti per l’Appennino, le cui fitocenosi si differenziano per il loro carattere relativamente xerotermofilo. In Abruzzo sono stati rilevati in varie località tra cui le Riserve Naturale Regionali “Monte Genzana e Alto Gizio” e “Abetina di Rosello”; i valloni freschi di Feudo Ugni, la valle del Foro e i Monti Pizzi nel Parco Nazionale della Majella; il Mortaio d’Angri nell’alto corso del fiume Tavo, il bacino del fiume Vomano (Rocchetta, Venacquaro, Rio Arno, Fucino, Zingano), la valle di Rio Castellano nel Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga.
Le cerrete
Sull’Appennino sono ben rappresentati i boschi di Cerro e di Roverella. Anche se sono molto diffusi i consorzi nei quali le due Querce sono presenti con i più disparati rapporti di dominanza, alquanto diversa è l’ecologia delle due specie, per il temperamento mesofilo del Cerro e per essere la Roverella meglio adattata a situazioni di maggiore termo-xericità. Per tali motivi, se si escludono i casi di inversione termica (come accade in alcune vallate), la Roverella occupa generalmente gli orizzonti collinari, spingendosi spesso sia nelle aree basso-montane che in quelle costiere e subcostiere (in quest’ultimo caso assieme alla Quercia virgiliana), mentre il Cerro, pur essendo presente anche in aree prossime al mare e collinari laddove il substrato le è favorevole, si spinge in territori submontani e montani, in genere a contatto con la faggeta. In questa sede, quindi, si accennerà brevemente ai boschi di Cerro, trascurando quelli di Roverella che sono legati con maggiore importanza al mondo della fascia collinare. Sull’Appennino il Cerro (Quercus cerris), ad areale sudest-europeo, forma, come si accennava, boschi monospecifici o misti, nell’ambito di più orizzonti di vegetazione, con optimum nella fascia submontana e con risalite, nelle esposizioni soleggiate, fino a 1200 m e oltre. Predilige suoli profondi, freschi, subacidi ed è tollerante nei confronti dei suoli argillosi, nei limiti di una sufficiente umidità.
Il Cerro è piuttosto esigente nei confronti della disponibilità idrica e partecipa anche ai boschi planiziari nei quali si associa alla Farnia (Quercus robur). In condizioni xeriche diminuisce la capacità di concorrenza e, di conseguenza, aumenta la possibilità di consociazione con la Roverella (Quercus pubescens). I tronchi, dritti e slanciati, conferiscono alla cerreta, quando gli esemplari sono annosi, un aspetto particolarmente solenne, al quale è associato uno dei riti più suggestivi di cui il Cerro è protagonista, quello del “maggio”, radicato in varie aree dell’Appennino, soprattutto al meridione, e legato agli antichi riti della fertilità.
In Abruzzo il panorama ecologico, fitogeografico e fitosociologico dei boschi di Cerro risulta piuttosto articolato e questo complesso forestale può essere suddiviso in due grandi gruppi. Uno è relativo alle cerrete a carattere più termofilo, legate alle quote inferiori, nelle quali il sottobosco si avvicina a quello dei boschi di Roverella. In alcuni casi la presenza di sclerofille sempreverdi (Leccio, Fillirea, Asparago selvatico, Robbia selvatica, ecc.) sottolinea aspetti ad impronta decisamente mediterranea. Il secondo gruppo comprende le cerrete mesofile, in situazioni climatiche vicine a quelle della fascia inferiore del Faggio, con cui condivide in larga misura anche il corteggio floristico. Sul piano fitogeografico è evidente il collegamento, per la massima parte dei casi, con le formazioni dell’Europa orientale; il contesto floristico evidenzia comunque una autonomia delle cerrete italiane peninsulari.
Splendido bosco di Abeti vetusti nella Riserva Abetina di Rosello (CH) – Foto Colazilli
I castagneti
Il Castagno (Castanea sativa) è una specie acidofila, eliofila e moderatamente termofila; predilige i substrati freschi e profondi, di natura silicea o comunque decalcificati. È sensibile alle gelate tardive e ai lunghi periodi di siccità. L’areale primario del castagno è di difficile definizione, essendo coltivato da tempi remotissimi. Oggi è diffuso nell’Europa meridionale dalla Penisola Iberica al Caucaso; è coltivato inoltre in numerosi Paesi extraeuropei. Attualmente in Italia è presente in tutto il territorio, in un intervallo altitudinale compreso tra i 300 e gli 800 m, potendo arrivare sugli Appennini anche fino a 1200 m; manca nella Padania e nelle altre pianure alluvionali.
Il Castagno possiede una straordinaria capacità pollonifera, anche in esemplari annosi; per tale motivo viene spesso governato a ceduo per la produzione di legname. I castagneti da frutto sono invece formati da esemplari grandi e vetusti, in cenosi diradate per favorire una abbondante fruttificazione. Il legno, semiduro, elastico, compatto, poco pesante, di lunga durata, è molto pregiato ed è utilizzato per la fabbricazione di mobili, infissi, pali, travi, botti, oggetti artigianali e per lavori di ebanisteria.
Il Castagno è stato per vari secoli valido sostentamento delle popolazioni più povere, fornendo alimento, combustibile, legno per attrezzi ecc.; ha alimentato le prime industrie del ferro e del tannino. Esso inoltre ha sempre attirato l’ attenzione dei selvicoltori ed ha ispirato poeti e letterati. Possiede un notevole patrimonio genetico, rappresentato da diverse varietà, di cui le più pregiate vengono raccolte sotto il nome di “marroni”, caratterizzati da frutti grossi (uno solo per ciascun riccio), facilità di sbucciatura della pellicola (episperma) e striature della buccia. Tra le varietà presenti in Abruzzo si ricordano il “Marrone di Valle Castellana” e la “Roscetta della Val Roveto”.
In Abruzzo il bosco di Castagno è presente nella valle del Vomano sul versante settentrionale del Gran Sasso, sui Simbruini, in Val Roveto e in altre località dell’Aquilano e, soprattutto, sui Monti della Laga, nella sezione nord-occidentale, dove si afferma su substrati geologici formati da marne ed arenarie del Miocene, in una fascia altitudinale compresa tra i 600 ed i 1000 m s.l.m. circa. In funzione dell’influsso antropico, è possibile distinguere, su base strutturale, il castagneto da frutto, il ceduo e la fustaia. Nello strato arboreo al Castagno, dominante, si accompagnano diverse altre specie quali la Rovere (Quercus petraea), il Carpino nero (Ostrya carpinifolia), la Roverella (Quercus pubescens), il Cerro (Quercus cerris), l’Acero opalo (Acer opalus subsp. obtusatum), l’Orniello (Fraxinus ornus) e il Faggio (Fagus sylvatica).
I boschi di Carpino bianco ed i querco-carpineti
Nell’Italia centrale il Carpino bianco (Carpinus betulus) partecipa a varie comunità forestali, alle quali a volte conferisce una peculiare fisionomia. Nelle forre o alla base del versanti vallivi sono frequenti le boscaglie di questa specie in associazione con il Nocciolo (Corylus avellana), mentre più localizzati, spesso lungo i fossi incisi dal sistema idrico superficiale, sono i nuclei di bosco in cui il Carpino bianco diventa nettamente dominante. Si tratta, comunque, di boschi di limitata estensione, che si affermano dove l’umidità edafica è particolarmente alta e dove, a volte, costituiscono una vegetazione di transizione tra il bosco di versante e quello igrofilo dell’impluvio.
Rari sono anche i lembi di bosco misto con Farnia (Quercus robur) (querco-carpineti), nei quali si possono rinvenire anche il Cerro (Quercus cerris), la Rovere (Quercus petraea), il Tiglio nostrano (Tilia platyphyllos) e il Pioppo bianco (Populus alba). Nell’Italia centro-meridionale, a causa dell’antropizzazione del territorio, i querco-carpineti della fascia montana sono ormai molto sporadici. In Abruzzo ne sono esempi i boschi di Oricola e di Tornimparte. Alle quote più basse delle pianure alluvionali, un esempio di querco-carpineto residuale è quello del bosco di Don Venanzio sul fiume Sinello.
I boschi di carpino nero
Il Carpino nero (Ostrya carpinifolia), ad areale europeo esteso fino all’Asia Minore ed al Caucaso, è legato a consorzi forestali misti (con Cerro, Roverella, Orniello, Aceri, Carpino bianco, Carpino orientale, ecc.), che occupano uno spazio ecologico compreso tra i boschi di sclerofille sempreverdi e la faggeta, nei quali può comunque entrare a far parte. Mostra preferenza per i suoli ricchi di calcare rifuggendo, invece, da quelli molto argillosi e molto acidi. Anche i boschi di Carpino nero, come quelli delle altre latifoglie, costituiscono un tipo fisionomico che riunisce diversi consorzi differenziati sul piano floristico-ecologico. In Abruzzo, accanto alle fitocenosi a carattere decisamente mesofilo, la cui composizione floristica si avvicina a quella delle faggete e delle cerrete, vi sono boschi di Carpino nero più o meno termofili, a volte caratterizzati, nelle fasce altimetriche più modeste, dalla presenza di elementi della macchia mediterranea.
Su suoli poco evoluti e sottili questi boschi costituiscono uno stadio nell’evoluzione delle cenosi forestali in direzione di aggruppamenti più maturi di tipo climacico, mentre, in condizioni di suolo profondo ed evoluto, possono rappresentare anche delle comunità climax. In tal caso il Carpino nero è favorito dalla ceduazione che lo privilegia nei confronti di altre latifoglie meno pollonifere come la Roverella e gli Aceri.
Nell’Italia centro-meridionale i boschi di Carpino nero sono ricchi di elmenti orientali, come l’Orniello (Fraxinus ornus), il Carpino orientale (Carpinus orientalis), il Terebinto (Pistacia terebinthus), il Bagolaro (Celtis australis), la Marruca (Paliurus spina-christi) e il Siliquastro (Cercis siliquastrum). Interessanti aspetti di ostrieto sono quelli caratterizzati dalla presenza del Bosso (Buxus sempervirens), arbusto dell’Europa atlantica e mediterranea.
Boschi nelle vallate del Parco Nazionale della Majella – Foto Colazilli
Le pinete a Pino nero
Il Pino nero è una specie collettiva (gruppo di Pinus nigra) con areale vasto ma molto frammentato, a carattere relittuale, che comprende i settori montani dell’Europa meridionale (Alpi Orientali, Pirenei, Carpazi,) e del bacino del Mediterraneo (Appennino centro-meridionale, Sicilia, Corsica, Dalmazia, Nordafrica). Molto diffuse prima delle glaciazioni quaternarie, le popolazioni appartenenti a questa entità, con l’avvento dei periodi freddi, hanno subito una frammentazione con drastica riduzione fino alla situazione attuale che si presenta con una serie di “razze geografiche” disgiunte, che edificano diversi nuclei di pinete a carattere mediterraneo-montano.
E’ specie elio-xerofila, resistente all’aridità del suolo, indifferente al tipo di substrato litologico. Per le sue doti di frugalità e di crescita rapida è stato sempre privilegiato nelle opere di rimboschimenti e nelle alberature stradali. Gli Autori distinguono varie sottospecie di Pinus nigra, ciascuna legata ad un determinato settore geografico. In Italia vengono riconosciute due sottospecie: P. nigra subp. nigra (Austria, Italia centro-meridionale e Grecia) e P. nigra subsp. laricio (Calabria, Sicilia), quest’ultimo presente anche in Corsica.
In Abruzzo il Pino nero, largamente utilizzato negli impianti di rimboschimento, è autoctono in alcune località (Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise, Parco Nazionale della Majella, Riserva Naturale Regionale di Zompo lo Schioppo) con popolazioni riferibili a Pinus nigra subsp. nigra var. italica (Pino nero italico). Queste pinete naturali, a struttura piuttosto aperta, mostrano un temperamento spiccatamente pioniero, insediate come sono su suoli poco evoluti, con frequenti affioramenti rocciosi lungo i ripidi versanti delle montagne calcaree. Il loro sottobosco è costituito soprattutto da arbusti eliofili (Cytisus spinescens, Cytisophyllum sessilifolium, Genista sericea, Polygala chamaebuxus, ecc.) e da varie specie erbacee xerofile.
Conclusioni
Allorquando i boschi montani sono poco utilizzati dall’uomo e vanno a costituire consorzi di altofusto, con alberi maestosi le cui chiome si uniscono a formare una cupola continua, il loro interno assume una bellezza e una solennità particolari, che si ripropongono, pur se con aspetti diversi, nelle varie stagioni. Nel bosco appenninico poi, più che in ogni altro ambiente, il divenire delle stagioni è segnato da fenologie che coinvolgono i vari strati della vegetazione, da quello muscinale al sottobosco erbaceo e arbustivo fino al piano delle chiome: una successione ciclica con straordinari mutamenti cromatici, olfattivi e di intensità luminose e sonore.
Un mondo spesso, oggi come nel passato, utilizzato dall’uomo in modo improprio e, in molti casi, devastato. Non dimentichiamo che la difesa idrogeologica, attualmente salita drammaticamente alla ribalta della cronaca, va programmata soprattutto in montagna, attraverso una oculata protezione dei boschi, di quelle poderose strutture forestali che regolano i flussi idrici e che, in sinergia con una corretta e insostituibile gestione delle golene fluviali, ci proteggono dalle alluvioni, sempre più frequenti e devastanti nel fragile territorio del nostro Paese. In tale contesto si sottolinea che nella gestione del bosco si è passati da una concezione prevalentemente produttivistica ad una visione attenta anche alle funzioni ecologiche e sociali, come viene evidenziato con la teoria della selvicoltura sistemica, una “selvicoltura estensiva” legata al concetto di gestione sostenibile, le cui finalità riguardano il mantenimento del sistema bosco in equilibrio con l’ambiente, la conservazione e l’aumento della biodiversità e della complessità del sistema, la congruenza dell’attività colturale con gli altri sistemi con i quali il bosco interagisce. In sintesi, il principio fondante asserisce che “il bosco è un sistema biologico complesso e, come tutti gli esseri viventi, è un’entità che ha valore in sé, un soggetto di diritti che va tutelato, conservato e difeso”.
Prof. Gianfranco Pirone. Già Professore Ordinario di Geobotanica ed Ecologia Vegetale presso l’Università dell’Aquila
Articolo pubblicato su Fratello Albero n.3 del 2015
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