La biodiversità forestale in Abruzzo
LA BIODIVERSITÀ FORESTALE IN ABRUZZO
Prof. Gianfranco Pirone, già ordinario di geobotanica e ecologia vegetale all’Università dell’Aquila
“La via più diretta per entrare nell’Universo
è quella che attraversa una foresta incontaminata”
John Muir
Introduzione
Il patrimonio vegetale dell’Abruzzo è uno dei più ricchi d’Italia, oltre che uno dei più importanti a livello europeo.
La flora regionale, primo livello di questo patrimonio, ammonta a oltre 3360 entità tra specie e sottospecie; il suo interesse non è legato solo alla elevata numerosità, ma anche alla qualità testimoniata, tra l’altro, dai circa 230 endemiti, prestigiose piante il cui numero va aumentando con il progredire degli studi sistematici, a dimostrazione che l’Abruzzo costituisce una vera e propria fucina di biodiversità.
Altrettanto rilevante è il secondo livello, rappresentato dalla vegetazione, quale risultante di una incessante combinazione di stirpi vegetali che nel corso dei millenni ci ha consegnato un peculiare e multiforme mantello verde, espressione della storia naturale e delle condizioni ecologiche attuali.
La notevole eterogeneità climatica, litologica e geomorfologica della regione, che ha prodotto una altrettanto ricca eterogeneità biologica, si riflette poi anche al più alto livello, quello della diversità paesaggistica.
In tale contesto, la vegetazione forestale rappresenta un elemento fondamentale, qualificato e qualificante del paesaggio, oltre che la forma più complessa di vegetazione. In quanto ecosistema, il bosco è molto più della sola somma dei singoli alberi che ne disegnano la fisionomia, essendo i suoi componenti, biotici e abiotici, legati da molteplici interazioni.
Dal punto di vista strutturale, nei casi più semplici, in un bosco si distinguono uno strato arboreo, uno arbustivo, uno erbaceo ed uno muscinale. I boschi più antichi e climaticamente favoriti, come le foreste pluviali equatoriali, presentano una struttura ben più articolata, con diversi strati arborei, di cui quello emergente può superare i 50 m di altezza.
Come sottolineano Giacomini e Fenaroli nell’ormai classico e sempre attuale volume “La Flora” pubblicato nel 1958 dal Touring Club d’Italia, “È grande dono delle nostre montagne il manto verde delle foreste. Senza dubbio le foreste sono le forme di vegetazione che più importa conoscere quando si vogliano inquadrare scientificamente i paesaggi vegetali di un determinato Paese; esse costituiscono nei singoli ambienti le espressioni più evolute e caratteristiche della vegetazione“.
Oltre a fornire legno, i boschi rappresentano una importante risorsa alimentare, idrica e farmaceutica e svolgono svariate funzioni: ecologiche e di conservazione della biodiversità, turistico-ricreative e igienico-sanitarie, di protezione idrogeologica, di stabilità climatica e ambientale.
La vita dell’uomo, quella materiale innanzi tutto, ma anche quella spirituale, si è sempre intrecciata con la vita del bosco, che ha ricoperto il ruolo di risorsa insostituibile e generosa, oltre che di luogo della sacralità e dell’ispirazione artistica.
I boschi in Abruzzo
L’Abruzzo è terra di boschi. Dalle coste adriatiche alle montagne appenniniche, leccete, pinete, querceti, carpineti e faggete compongono una straordinaria sequenza della biodiversità forestale della nostra regione. Un patrimonio che, in base ai dati dell’Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi di Carbonio, ammonta a circa 438590 ettari, con un indice di boscosità superiore al 40% (la media nazionale è pari al 34,7%), a conferma di come l’Abruzzo sia uno dei maggiori distretti forestali italiani.
La maggior parte di tale superficie è coperta dai boschi di latifoglie, seguiti dai boschi misti e dai boschi di conifere, questi ultimi rappresentati quasi totalmente da pinete a Pino nero di impianto antropico; una quota è costituita da formazioni arboree rade e da arbusteti.
Ad incrementare la superficie forestale ha contribuito l’abbandono, in vari territori, delle tradizionali attività agricole e di pascolo, che ha favorito il ritorno del bosco.
La vegetazione forestale è stata oggetto in Abruzzo di numerose ricerche relative ai diversi settori geografici ed alle varie tipologie. Le associazioni forestali attualmente note e identificate con approccio fitosociologico ammontano ad una sessantina, numero elevato come conseguenza dei contesti geomorfologico, ecologico, fitogeografico e storico, che hanno favorito la diversificazione forestale.
In questa sede si integra quanto già riportato in un precedente articolo di questa stessa rivista sui boschi montani, con una sintesi delle più significative fitocenosi forestali presenti in Abruzzo, sulla base della classica suddivisione in gruppi fisionomici:
– boschi di latifoglie decidue:
- mesofili (faggete, querco-carpineti, boschi di forra, ecc.);
- termofili e submesofili (querceti a Roverella e Cerro, ostrieti, castagneti, ecc.);
- ripariali e paludosi (saliceti, pioppeti, frassineti, olmeti, ontanete).
– boschi di latifoglie sempreverdi:
- leccete;
- boschi di alloro.
– boschi di aghifoglie:
- pinete mediterranee a Pino d’Aleppo;
- pinete montane a Pino nero;
- mugheta appenninica.
Le faggete
Se si dovesse scegliere un albero distintivo dell’ambiente appenninico, non ci sarebbero dubbi: la scelta cadrebbe sicuramente sul Faggio. Ed infatti, nel ricco ed articolato mosaico vegetazionale dell’Appennino, la tessera più importante per fisionomia e rappresentatività è quella relativa alla faggeta.
E’, il Faggio (Fagus sylvatica), è un albero maestoso, dal tronco dritto che può raggiungere i 40 metri di altezza, con grandi rami formanti una densa chioma. Quando, poi, cresce isolato nelle radure ed ha, quindi, la possibilità di svilupparsi senza subire concorrenza, allora espande ancor più i suoi rami, che assumono un andamento suborizzontale e poi ascendente, sì da formare una chioma veramente imponente.
Distribuito in Europa ed in Asia occidentale, forma ampi e densi boschi nei territori a clima temperato-fresco con carattere oceanico, su suoli profondi, in un intervallo altitudinale che, sull’Appennino, ha il suo optimum tra i 1000 ed i 1700 metri. Teme i periodi di aridità, le gelate primaverili, i venti secchi ed il ristagno di acqua nel suolo.
Il bosco di Faggio chiude, almeno nel settore appenninico centro-meridionale, la zonazione altitudinale del manto forestale. La forma di governo dominante è il ceduo, ma non mancano esempi di fustaie.
Alle quote inferiori la faggeta è caratterizzata da aspetti misti con Aceri, Carpini, Ornielli e Cerri, mentre nella fascia più elevata, oltre i 1300-1400 metri, il Faggio, con l’accentuarsi di un clima più fresco ed umido, diventa dominante.
In Abruzzo la faggeta copre ampie superfici lungo i versanti di tutti i massicci montuosi, più spesso con aspetti di ceduo ma anche con esempi di bellissime fustaie. E’ il caso, ad esempio, del bosco di Fonte Novello sul Gran Sasso, del Bosco Martese sulla Laga, del bosco di S. Antonio sugli Altopiani Maggiori in Comune di Pesocostanzo. Quest’ultimo era anticamente adibito a “difesa”, luogo cioè riservato al pascolo bovino ed equino, caratterizzato da una vegetazione arborea con radure e con alberi di grandi dimensioni spesso capitozzati, che finivano per assumere un portamento “a candelabro”. Altre bellissime e ben conservate faggete sono quelle dei Monti Pizzi, nell’Abruzzo meridionale, dove è facile incontrare anche un altro importante ed emblematico albero, il Tasso.
Sul piano sia floristico-ecologico che fitogeografico, il panorama relativo alle faggete abruzzesi è ampio e articolato. I fattori climatici discriminano due grandi gruppi: quello delle faggete termofile, nell’orizzonte montano inferiore, e quello delle faggete microterme, di pertinenza dell’orizzonte montano superiore.
Nel primo gruppo risultano ben rappresentate due faggete a carattere neutro-basifilo: una con Agrifoglio (Ilex aquifolium) e l’altra con Acero di Lobel (Acer cappadocicum subsp. lobelii). Si tratta di aspetti generalmente misti ad altre latifoglie mesofile, insediati generalmente su suoli bruni calcarei ben sviluppati. In particolare, la faggeta con Acero di Lobel esprime la particolare ecologia di questa specie endemica dell’Appennino meridionale, buona indicatrice di condizioni di meso-eutroficità, che si insedia con particolare vigore nelle stazioni caratterizzate da affioramenti rocciosi molto fratturati che trattengono abbondante humus. E’ presente inoltre una faggeta termofila subacidofila, legata ai suoli acidi pelitico-arenacei.
Anche per il secondo gruppo sono note in Abruzzo due tipologie: una a carattere neutro-basifilo, dei substrati carbonatici e presente su tutti i massicci montuosi della regione, l’altra acidofila, legata ai suoli pelitico-arenacei del Gran Sasso e dei Monti della Laga.
Sporadicamente, in aree a clima meno spiccatamente oceanico, è presente, nelle faggete della Laga, del Gran Sasso e dell’Abruzzo meridionale ai confini con il Molise, l’Abete bianco (Abies alba). In passato le abieti-faggete erano molto diffuse, come dimostrano le analisi polliniche, e costituivano il tipo di bosco più evoluto della catena appenninica. Oggi la presenza dell’Abete è divenuta rara sia a causa delle variazioni climatiche che hanno favorito il Faggio, sia a seguito degli interventi antropici che hanno eliminato la conifera da molti territori. Queste fitocenosi ospitano alcune specie vascolari endemiche e lo stesso Abete bianco è rappresentato, almeno nell’Appennino meridionale, da una sottospecie endemica (Abies alba subsp. apennina). Nel loro corteggio floristico è inoltre presente un ricco contingente di specie orofile, da considerarsi come relitti di una flora terziaria che dopo le glaciazioni non è stata in grado di espandersi verso nord e che è rimasta accantonata su queste montagne.
Un altro albero di rilevante interesse, presente nelle faggete, è il Tasso (Taxus baccata), in Italia oggi sporadico, legato alle stazioni più umide e con scarse oscillazioni termiche, anch’esso come relitto di una flora terziaria preesistente alle glaciazioni quaternarie. In Abruzzo si può osservare, quasi sempre molto localizzato, sia nelle faggete termofile che in quelle microterme, oltre che nei boschi misti mesofili di forra.
Più di un cenno meriterebbe la Betulla (Betula pendula), importante relitto glaciale presente in varie località della regione (Monti della Laga, Gran Sasso, contrafforti dell’Altopiano di Cascina, Sirente-Velino, Majella, Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise). Si tratta di piccoli nuclei localizzati in un intervallo altitudinale compreso tra 1000 e 1700 m circa, generalmente ai margini delle faggete, a volte ai limiti superiori del bosco su suoli poco evoluti e con detrito di falda.
I boschi di forra
I versanti dei massicci montuosi regionali sono incisi da profondi valloni e strette forre rupestri, che costituiscono una degli aspetti morfologici più tipici e seducenti delle nostre montagne. Sono sede, questi luoghi, di rare e interessanti foreste, nelle quali regna un’atmosfera di tempi remoti, resa a volte ancora più magica dalla loro inaccessibilità.
Si tratta di boschi temperato-freschi che hanno un areale a baricentro atlantico-centro-ovest-europeo e presentano una localizzazione fortemente condizionata dalle caratteristiche del substrato, determinate dall’accumulo di materiale detritico proveniente dal disfacimento del versante e di materiale organico che favorisce la pedogenesi di suoli profondi, eutrofici e ben drenati.
Lo strato arboreo risulta formato da varie latifoglie mesofile quali gli Aceri (Acer pseudo- platanus, Acer platanoides, Acer opalus subsp. obtusatum), il Tiglio nostrano (Tilia platyphyllos subsp. platyphyllos), il Frassino maggiore (Fraxinus excelsior subsp. excelsior), l’Olmo montano (Ulmus grabra) e il Faggio (Fagus sylvatica). Nell’Italia meridionale, verso nord fino all’Abruzzo meridionale, spesso questi boschi sono impreziositi dalla presenza dell’Acero di Lobel (Acer cappadocicum subsp. lobelii), elegante albero endemico dell’Appennino meridionale, cui si è fatto cenno a proposito delle faggete. La maggior parte di questi alberi sono annoverati tra le latifoglie “nobili”, quelle cioè che, presenti sporadicamente nei nostri boschi, possiedono caratteri di relativa rarità e di particolare pregio tecnologico, estetico e naturalistico.
Anche il sottobosco mostra una composizione che riflette l’accentuata mesofilìa dei popolamenti, con numerose specie tipiche delle faggete.
In Italia tali boschi sono ben rappresentati sulle Alpi mentre, anche a causa delle lacune nella ricerca di campo, sono poco noti per gli Appennini. In Abruzzo sono presenti in varie località, tra cui le Riserve Regionali Abetina di Rosello e Monte Genzana/Alto-Gizio ed i Parchi Nazionali della Majella e del Gran Sasso-Monti della Laga.
Si sottolinea inoltre che lungo i valloni subcostieri del Chietino sono presenti boschetti di forra a impronta mediterranea, caratterizzati dalla presenza dell’Alloro (Laurus nobilis).
Le cerrete
Nel ricco panorama delle antiche tradizioni popolari, il Cerro è protagonista di uno dei riti più suggestivi, quello del “maggio”, radicato in varie aree dell’Appennino, ma diffuso anche in tutta l’Europa. La festa del “maggio” è legata agli antichi culti della fertilità e l’albero rappresenterebbe la forza e la vitalità giovanile.
Ad Accettura, in Basilicata, il culto del “maggio”, che si rinnova ogni domenica di Pentecoste, prevede il taglio, nel bosco Montepiano, di un monumentale Cerro, sulla cui cima viene poi “innestato” un grande esemplare di Agrifoglio proveniente dalla vicina foresta di Gallipoli. Il “maggio”, formato dall’unione del Cerro (lo “sposo”) e dell’Agrifoglio (la “sposa”), viene poi innalzato nella piazza del paese.
In diverse località dell’Appennino centrale l’albero di maggio è invece costituito, quasi sempre, da un Pioppo. Uno dei riti più suggestivi è quello che si svolge a Tornimparte (L’Aquila) tra il 30 aprile e il primo maggio, detto in dialetto locale ju calenne.
Il Cerro (Quercus cerris), albero ad areale sudest-europeo, sull’Appennino forma boschi monospeci- fici o misti, nell’ambito di più orizzonti di vegetazione, con optimum nella fascia submontana e con risalite, nelle esposizioni soleggiate, fino a 1200 m e oltre. Predilige suoli profondi, freschi, subacidi ed è tollerante nei confronti dei suoli argillosi, nei limiti di una sufficiente umidità. I tronchi, dritti e slanciati, conferiscono alla cerreta, quando gli esemplari sono annosi, un aspetto particolarmente solenne.
Partecipa anche alla costruzione di boschi planiziali nei quali si associa alla Farnia (Quercus robur subsp. robur). In condizioni xeriche diminuisce la capacità di concorrenza e, di conseguenza, aumenta la possibilità di consociazione con la Roverella (Quercus pubescens).
E’ presente sporadicamente in Italia settentrionale, mentre assume notevole rilievo nelle regioni centro-meridionali, dove edifica boschi puri o misti con altre latifoglie (Roverella, Rovere, Farnetto, Carpino nero e bianco, ecc.) nella fascia generalmente posta al di sopra di quella della Roverella, anche se, in condizioni climatiche favorevoli, scende fino al livello del mare.
In Abruzzo il panorama dei boschi di Cerro risulta ben articolato e, sul piano fitogeografico, è evidente il collegamento con le formazioni dell’Europa orientale.
Al pari delle faggete, anche nell’ambito delle cerrete vi sono boschi sia termofili che mesofili.
I primi sono legati alle quote inferiori, nei quali il sottobosco si avvicina a quello dei boschi di Roverella. In alcuni casi la presenza di sclerofille sempreverdi (Leccio, Fillirea, Asparago selvatico, Robbia selvatica, ecc.) sottolinea aspetti ad impronta decisamente mediterranea. Le cerrete termofile oggi identificate sono riconducibili a due aspetti, legati ai substrati marnoso-arenacei: uno con il Caprifoglio etrusco (Lonicera etrusca), che si afferma nella fascia collinare subcostiera adriatica e sui rilievi terrazzati di origine alluvionale dell’Abruzzo meridionale costiero-collinare, l’altro con la Dafne laurella (Daphne laureola), che si rinviene sui rilievi collinari a quote comprese tra i 400 e i 700 m (alta Valle del Sangro, alto Vastese, Valle del Trigno).
Due sono anche gli aspetti di cerreta mesofila: uno con l’Agrimonia delle faggete (Aremonia agrimonoides), presente in varie località del settore meridionale e nord-occidentale della regione e relativa alle formazioni mesofile submontane, di transizione tra le faggete ed i boschi termofili, a forte determinismo edafico, su suoli prevalentemente subacidi senza deficit idrico; l’altro, submontano e montano, con l’orchidea Listera ovata, su substrati freschi ed umidi del flysch, sui Monti della Laga e nell’alta valle del Vomano.
E’ stata descritta, inoltre, una cerreta a carattere intermedio, quindi di tipo semimesofilo, rilevata lungo i versanti meridionali del piano montano della regione (Assergi, Ofena, Capestrano, Bisegna, Val Roveto, ecc.), a quote comprese tra 700 e 1300 m, in bioclima temperato e su substrati carbonatici.
I castagneti
Per secoli il Castagno è stato un valido sostentamento delle popolazioni più povere, fornendo alimento, combustibile, legno per attrezzi, ecc.; ha alimentato le prime industrie del ferro e del tannino; ha sempre attirato l’attenzione dei selvicoltori ed ha ispirato poeti e letterati.
Dopo un lungo periodo di relativo oblìo, dovuto soprattutto ai profondi danni causati da vari parassiti (i più virulenti dei quali sono il “mal dell’inchiostro”-cioè la peronospora del castagno, il fungo Phytophthora cambivora– ed il terribile “cancro della corteccia” -causato da un altro fungo, Endothia parasitica), nonostante il ridimensionamento della castanicoltura e il continuo imperversare delle parassitosi, oggi questo importante albero ritorna poco a poco, anche se faticosamente e con alterne vicende, alla ribalta, a regalarci ancora deliziose caldarroste e gustosi castagnacci.
Il Castagno (Castanea sativa) è un albero caducifoglio alto fino a 20-25 m, con tronco eretto e massiccio assai ramificato e con chioma ampia. Possiede un’ottima capacità pollonifera, è molto longevo e può raggiungere i 500 anni di età, mentre per alcuni individui è stata stimata un’età di 1000 anni. In Italia l’esemplare più famoso è quello detto “dei cento cavalli”, sulle pendici dell’Etna, che avrebbe un’età di oltre 2000 anni. In Abruzzo, il “Piantone di Nardò” a Valle Castellana, sui Monti della Laga, ha una circonferenza di quasi 13 metri.
Specie eliofila e moderatamente termofila, è legato ai suoli acidi, freschi e profondi; è sensibile alle gelate tardive ed ai lunghi periodi di siccità.
L’areale primario del Castagno è di difficile definizione, essendo coltivato da tempi remotissimi. Oggi è diffuso nell’Europa meridionale dalla Penisola Iberica al Caucaso; è coltivato inoltre in numerosi Paesi extraeuropei. Questo albero viene considerato un relitto dell’Era Terziaria, quando era diffuso in tutta l’Europa. La restrizione del suo areale fino alla situazione attuale è in relazione con le glaciazioni del Pleistocene. I dati palinologici hanno messo in evidenza una concentrazione massima del polline nell’Italia centrale: ciò rafforza l’ipotesi secondo cui il Castagno può essere considerato autoctono in Italia, nei Balcani occidentali ed in Spagna. La specie ha, poi, riconquistato spazio favorita dall’uomo, soprattutto nel periodo romano e post-romano.
In Abruzzo il bosco di Castagno è presente nella Valle del Vomano sul versante settentrionale del Gran Sasso (Intermesoli, Fano Adriano, Montorio al Vomano, ecc.), sui Simbruini, in Val Roveto e in altre località dell’Aquilano (Sante Marie, Montereale, Tornimparte, ecc.). Estesi castagneti sono localizzati sui Monti della Laga, nella sezione nord-occidentale (dintorni di Acquasanta, Valle Castellana, Favalanciata, ecc.), su substrati marnoso-arenacei del Miocene, in una fascia altitudinale compresa tra i 600 ed i 1000 m s.l.m. circa.
In funzione dell’influsso antropico è possibile distinguere, su base strutturale, il castagneto da frutto, il ceduo e la fustaia. Al Castagno, dominante nello strato arboreo, si accompagnano diverse altre specie quali il Cerro, la Rovere, il Carpino nero, la Roverella, l’Acero opalo, l’Orniello e il Faggio. Anche la composizione floristica del sottobosco è ricca e annovera numerose specie tipiche dei boschi mesofili di caducifoglie, oltre a varie piante acidofile.
Il Castagno possiede un notevole patrimonio genetico, rappresentato da diverse varietà, di cui le più pregiate vengono raccolte sotto il nome di “marroni”, caratterizzati da frutti grossi (uno solo per ciascun riccio), facilità di sbucciatura della pellicola (episperma) e striature della buccia. Tra le varietà presenti in Abruzzo si ricordano il “Marrone di Valle Castellana” e la “Roscetta della Val Roveto”.
I boschi di Carpino bianco
Eleganti e utili ma forse poco conosciuti, i Carpini occupano, meritatamente, un posto di primo piano nel panorama forestale della nostra regione.
Il Carpino bianco (Carpinus betulus), in particolare, simbolo di vigore, anticamente era oggetto di riti che propiziavano la guarigione degli ammalati gravi.
E’ un albero alto fino a 20 metri, a tronco eretto provvisto di ampie scanalature e creste, con corteccia liscia di color grigio-cenerino che nelle creste diventa argenteo. Predilige i terreni profondi, sciolti e freschi; vive sia in pianura, dove edifica assieme alla Farnia, oltre che all’Olmo e ai Frassini, sia in collina e in montagna fino a 1000-1200 m, dove si associa al Faggio, al Castagno, al Frassino, al Cerro, al Tiglio, ecc. A volte, dato il suo temperamento pioniero, colonizza anche terreni poveri, migliorandoli e preparandoli all’insediamento di specie arboree più esigenti. È molto utilizzato a scopo ornamentale e sopporta molto bene le potature.
E’ distribuito in Europa dalla Francia e dall’Inghilterra fino alla Russia occidentale. È presente, anche se spesso in modo sporadico, in tutto il territorio abruzzese, nelle valli alluvionali e nei boschi freschi collinari e montani.
Nell’Italia centrale il Carpino bianco partecipa a varie comunità forestali, alle quali a volte conferisce una peculiare fisionomia. Sono frequenti, nelle forre o alla base dei versanti vallivi, le boscaglie di questa specie in associazione con il Nocciolo, mentre sono più localizzati, spesso lungo i fossi incisi dal sistema idrico superficiale, i nuclei di bosco in cui il Carpino bianco diventa nettamente dominante. Si tratta, comunque, di boschi di limitata estensione, che si affermano dove l’umidità edafica è particolarmente alta e dove, a volte, costituiscono una vegetazione di transizione tra il bosco di versante e quello igrofilo dell’impluvio.
Le fitocenosi note per l’Abruzzo sono articolate in sei aspetti:
– con Bosso (Buxus sempervirens), rilevato nella Riserva Naturale Regionale “Monte Genzana e Alto Gizio” e la cui composizione rivela una transizione tra i carpineti e i boschi di forra;
– con Geranio nodoso (Geranium nodosum), insediato nella parte bassa dei versanti vallivi e nelle forre del bacino del fiume Vomano;
– con Geranio striato (Geranium versicolor), più termofilo del precedente, di cui è vicariante nella valle del Trigno;
– con Nocciolo (Corylus avellana), insediato negli impluvi, canaloni e vallecole fresche ed umide, dei piani collinare e basso-montano, in varie località della regione;
– con Alloro (Laurus nobilis), di stampo submediterraneo o francamente mediterraneo, differenziato da alcune sclerofille sempreverdi come il Leccio e il Laurotino, rilevato nelle Gole del Salinello;
– con Carice di Griolet (Carex grioletii), misto con Acero campestre, Farnia, Cerro, Olmo campestre, Tiglio e altre latifoglie, in ambito mediterraneo o submediterraneo, noto per il Bosco di Don Venanzio, Vallaspra di Atessa e fiume Aterno.
I boschi di Farnia e Carpino bianco (querco-carpineti)
Albero tra i più sacri presso i popoli antichi, nella mitologia greca la Farnia era la quercia sacra a Zeus e presso i romani era il simbolo della sovranità. All’ombra della sua chioma, nel medioevo, si amministrava la giustizia e si riunivano le autorità.
La Farnia (Quercus robur subsp. robur) è alta fino a 30-35 m, a volte anche 40 m, con rami robusti e chioma ampia e più o meno irregolare. E’ specie mesofila, spiccatamente eliofila da giovane, meno da adulta, resistente ai rigori invernali. Tendenzialmente igrofila, non adatta ai suoli aridi e alcalini, predilige i terreni sciolti e profondi anche con falda elevata. E’ distribuita in Europa e in Asia occidentale.
È la quercia tipica delle pianure, dove un tempo, prima dell’avvento dell’agricoltura e dell’urbanizzazione, formava grandi foreste in associazione con il Carpino bianco, i Pioppi e l’Olmo; oggi nelle pianure alluvionali restano solo sparute testimonianze di tali superbe foreste.
In Abruzzo è poco diffusa soprattutto a causa della scomparsa delle antiche foreste planiziali.
Rari sono i lembi di bosco misto con Farnia (querco-carpineti), nei quali si possono rinvenire anche il Cerro, la Rovere, il Tiglio nostrano e il Pioppo bianco. Nell’Italia centro-meridionale, a causa dell’antropizzazione del territorio, sono osservabili ormai sporadicamente in alcune pianure alluvionali e costiere ma anche in qualche pianoro della fascia collinare e basso-montana: in Abruzzo ne sono esempi i boschi di Oricola e di Tornimparte.
Quello di Oricola è un bosco misto a dominanza di Farnia, Carpino bianco e Tiglio selvatico, su depositi lacustri argilloso-sabbioso-limosi nel bacino intermontano di Carsoli, antica conca fluvio-lacustre a circa 600 m s.l.m.
Il bosco di Tornimparte, nel bacino del torrente Raio, è dominato da Farnia, Carpino bianco e Cerro, a circa 700 m s.l.m., su substrati di natura prevalentemente sabbioso-argillosa, nel contesto di litologie flyschoidi e di depositi fluvio-lacustri.
I boschi di Carpino nero
Carpino nero e tartufo: un binomio inscindibile. Questa bella ed elegante caducifoglia è infatti una delle piante simbionti largamente utilizzata nella coltivazione dei tartufi ed in particolare del tartufo nero. Un motivo in più, ove ce ne fosse bisogno, per guardare questo albero con maggiore entusiasmo.
Il Carpino nero (Ostrya carpinifolia), ad areale europeo esteso fino all’Asia Minore ed al Caucaso, è legato a consorzi generalmente misti (con Cerro, Roverella, Orniello, Aceri, Carpini, ecc.), che occupano uno spazio ecologico compreso tra i boschi di sclerofille sempreverdi e la faggeta, nei quali può comunque entrare a far parte spingendosi fino a 1000-1200 m di altitudine. Mostra preferenza per i suoli ricchi di calcare rifuggendo, invece, da quelli molto argillosi e acidi.
Su suoli poco evoluti e sottili l’ostrieto (viene chiamato anche così, dal nome generico Ostrya, il bosco di Carpino nero) costituisce uno stadio precursore di cenosi forestali più mature, di tipo climacico. In condizioni di suolo profondo ed evoluto può invece rappresentare anche delle comunità climax. In tal caso il Carpino nero è favorito dalla ceduazione che lo privilegia nei confronti di altre latifoglie meno pollonifere come la Roverella e gli Aceri. Il sottobosco dell’ostrieto, a differenza di quello dei querceti xerofili, ospita specie di ambienti più schiettamente nemorali e freschi, con numerose geofite.
Nell’Italia centro-meridionale i boschi di Carpino nero sono ricchi di elementi orientali, come l’Orniello (Fraxinus ornus ssp. ornus), il Carpino orientale (Carpinus orientalis), il Terebinto (Pistacia terebinthus), il Bagolaro (Celtis australis), la Marruca (Paliurus spina- christi) e il Siliquastro (Cercis siliquastrum).
Anche questi boschi, come quelli di Faggio, di Cerro e di Roverella, costituiscono un tipo fisionomico che riunisce diversi aspetti differenziati sul piano floristico-ecologico. Accanto agli ostrieti a carattere decisamente mesofilo, la cui composizione floristica si avvicina a quella degli altri boschi freschi come le faggete e le cerrete, vi sono boschi di Carpino nero più o meno termofili, a volte caratterizzati, nelle fasce altimetriche più modeste, dalla presenza di elementi della macchia mediterranea. Tale situazione è presente anche in Abruzzo, con aspetti della fascia basso collinare più vicina alla costa ricchi di specie della macchia mediterranea, e aspetti appenninici, più freschi.
Interessanti ostrieti sono quelli caratterizzati dalla presenza del Bosso (Buxus sempervirens), arbusto dell’Europa atlantica e mediterranea.
In situazioni di forra o lungo versanti molto acclivi, su substrati poco evoluti e spesso ricchi di scheletro, si affermano consorzi il cui sottobosco è caratterizzato dalla presenza delle Seslerie, piante erbacee perenni della famiglia delle Graminacee. Nell’Appennino Umbro-Marchigiano sono presenti gli ostrieti con la Sesleria italiana (Sesleria italica), mentre lungo la sezione centro-meridionale dell’Appennino alcuni boschi di Carpino nero sono differenziati dalla Sesleria d’autunno ( Sesleria autumnalis) e da quella dei macereti (Sesleria nitida).
I boschi di Roverella e Quercia virgiliana
La Roverella sta la collina come il Faggio alla montagna: la faggeta domina la fascia montana, il bosco di Roverella caratterizza il paesaggio della fascia collinare. Il nome non deve ingannare, perché la nostra “cerqua” non sfigura affatto, per portamento, al cospetto di altre querce come la Rovere, la Farnia e il Cerro: può superare, infatti, in altezza, anche i 20-25 metri, se viene lasciata libera di crescere. Ciò, purtroppo, accade molto raramente, perché il bosco di Roverella viene governato, nella quasi totalità dei casi, a ceduo e, quindi, la turnazione dei tagli non permette a questa bella e frugale latifoglia di esprimersi in tutto il suo vigore. Che, invece, possiamo apprezzare in qualche maestoso esemplare, a volte di dimensioni veramente notevoli, sfuggito al taglio, nel bel mezzo dei campi o lungo le stradine interpoderali: una testimonianza delle antiche, superbe selve di Roverella che un tempo ammantavano le nostre colline.
Nel panorama delle querce presenti nel territorio italiano, la Roverella (Quercus pubescens) è una delle specie tra le più plastiche sul piano ecologico. Albero molto frugale ed indifferente al tipo di substrato, il suo optimum si pone nella fascia collinare-submontana. Tra le specie caducifoglie è la più xerofila; nell’area mediterranea tende ad eludere l’aridità estiva con la fioritura e l’entrata in vegetazione più precoci di quelle del Leccio, con l’emissione di getti autunnali e con accenni di comportamento semisempreverde.
A causa della vicinanza con i maggiori insediamenti umani e delle millenarie utilizzazioni, è raro osservare boschi di Roverella ben strutturati e con esemplari annosi; i nuclei presenti sono generalmente dei cedui degradati, che occupano territori marginali di difficile utilizzazione agricola. In diverse aree si assiste, al contrario, come conseguenza dell’abbandono delle attività agricole e di pascolo, ad una ricolonizzazione da parte del bosco, che sta riconquistando gli spazi che gli erano stati sottratti.
Nella fascia collinare è presente anche la Quercia virgiliana o castagnara (Quercus virgiliana) che spesso risulta dominante e nell’area basso-collinare forma fitocenosi a carattere più nettamente mediterraneo.
Sono state riconosciute diverse associazioni a dominanza di Roverella e Quercia virgiliana. Le più diffuse si possono ricondurre a due grandi tipologie, ampiamente presenti anche in Abruzzo: una a carattere submediterraneo, differenziata, sul piano floristico, da numerose sclerofille sempreverdi tipiche della macchia mediterranea: Leccio (Quercus ilex), Rosa sempreverde (Rosa sempervirens), Fillirea comune (Phillyrea latifolia), Caprifoglio etrusco (Lonicera etrusca), Asparago pungente (Asparagus acutifolius), ecc.; l’altra a carattere subcontinentale, caratterizzata soprattutto dalla presenza di alcuni arbusti eliofili come il Citiso a foglie sessili (Cytisophyllum sessilifolium) e il Citiso spinoso (Cytisus spinescens).
Nella nostra regione sono stati rilevati anche altri interessanti aspetti, tra cui quello con Bosso (Buxus semprevirens) e quello con Alloro (Laurus nobilis), quest’ultimo presente in varie località subcostiero-collinari del Pescarese e del Chietino, in stazioni dove la natura del substrato e l’esposizione favoriscono una discreta umidità edafica.
Elogio delle Querce
Nel libro “La Quercia, storia sociale di un albero” di William Bryant Logan, noto arboricoltore di New York, l’Autore evidenzia che le Querce, pur essendo spesso maestose, non detengono, nello straordinario mondo degli alberi, nessun record. Non sono gli alberi più alti: il primato spetta alle Sequoie della California settentrionale, che superano i 120 metri; non sono gli alberi più imponenti: tale record è appannaggio di un’altra Sequoia cui è stato dato il nome del Generale Sherman, che pesa quasi 2000 tonnellate; non sono gli alberi più antichi: i matusalemme vegetali sono i Pini longevi delle Withe Mountains della California, il più vecchio dei quali avrebbe un’età intorno ai 5000 anni. Logan riferisce che K. Nixon, paleobotanico della Cornell University, alla domanda relativa a cosa avessero di speciale le Querce, ha così risposto: «Niente». «Ma -ha aggiunto- ciò che colpisce è che puoi andare dal Massachusetts a Città del Messico e trovare ovunque lo stesso genere Quercus (che riunisce tutte le specie di Querce), mentre sono pochissimi gli altri generi». La caratteristica peculiare delle Querce è, quindi, la loro flessibilità. Come sottolinea Logan, le Querce fanno della non specializzazione la loro specialità. Alberi da guinnes dei primati (ne sono esempi gli alberi citati più sopra) occupano particolari nicchie. Le Querce, invece, sono attualmente distribuite lungo tutta l’ampia fascia climatica temperata dell’emisfero settentrionale, dove sono presenti con oltre 600 specie. Si tratta di un genere comparso sulla Terra in epoche molto remote, come attestano i reperti fossili risalenti al periodo Cretacico dell’Era Cenozoica, quando il suo areale era ancora più ampio dell’attuale e comprendeva anche l’Australia, il Sudamerica, la Groenlandia e l’Africa centrale. In Italia vivono una quindicina di entità, di cui nove presenti in Abruzzo. Questa loro peculiarità fitogeografica, frutto della particolare storia evolutiva, ha tra l’altro favorito il progresso economico e la ricchezza culturale dell’umanità. Basti, a tale proposito, pensare all’importanza delle loro ghiande che hanno fornito alimento agli uomini prima e agli animali poi, e del loro legno con cui sono state costruite navi che hanno solcato tutti gli oceani. La loro importanza è attestata anche dalla storia delle civiltà mediterranee, con frequenti richiami a tali alberi come piante utili e come simbolo di forza e vigore. A rafforzare il loro valore vi è anche l’origine del nome Quercus, che sembra derivi dal celtico quer (bello) e cuez (albero). Insomma, una vera e propria risorsa naturale degna del più profondo rispetto.
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I boschi di Pioppo tremolo
Se, trovandovi ai margini di un bosco, al più tenue alito di vento vedete le foglie tremolare, non vi sono dubbi, siete al cospetto del Pioppo tremolo: è sua infatti la caratteristica di avere foglie così frementi.
Il Pioppo tremolo (Populus tremula) è un albero alto fino a 20 m e oltre, con fusto slanciato e rami raccolti verso l’alto. È una specie colonizzatrice, amante della luce, e costituisce dei nuclei ai margini e nelle radure dei boschi montani in stazioni soleggiate e ad elevata umidità. La sua distribuzione geografica comprende l’ Europa, l’Asia fino all’Estremo Oriente e l’Africa del Nord. In Abruzzo è comune.
Le formazioni a dominanza di Pioppo tremolo hanno caratteristiche preforestali e si affermano lungo gli impluvi ed ai margini dei boschi misti, anche se non mancano fitocenosi con aspetti floristico-ecologici più maturi.
Questi boschi si insediano su terreni profondi, freschi e ben drenati, derivanti soprattutto da substrati arenacei e marnoso-arenacei, nei piani collinare e montano (600-1400 m s.l.m. circa) del settore appenninico centro-meridionale.
In Abruzzo si possono osservare su tutti i gruppi montuosi, in particolare ai margini delle faggete e di altri boschi freschi.
I boschi di Leccio e la macchia mediterranea
Le antiche foreste litoranee erano edificate da imponenti querce, che le rendevano cupe e selvagge: “neri boschi di Leccio”, come ci ricorda Virgilio. Erano boschi sacri agli Etruschi, ai Greci ed ai Romani. Numerose città italiche vennero fondate in località impreziosite da grandi querce, ad auspicarne la fortuna e la prosperità.
Stiamo qui riferendoci alla Regione Mediterranea, caratterizzata da periodi più o meno lunghi di bel tempo e dall’assenza di pioggia per vari mesi. Le estati calde prive di precipitazioni e gli inverni miti favoriscono una vegetazione legnosa a sclerofille, caratterizzate da foglie ricche di tessuto sclerenchimatico, coriacee, rigide e persistenti per un anno o più, idonee a difendere le piante dall’eccessiva perdita di acqua per traspirazione.
La vegetazione mediterranea può avere struttura arborescente o arbustiva. In Italia, nel primo caso sono compresi i boschi di Leccio (Quercus ilex), di Quercia da sughero (Quercus suber) e alcune pinete; nel secondo si hanno le tipiche formazioni di macchia, con numerose specie arbustive tra cui, oltre al Leccio, vi sono il Mirto (Myrtus communis), il Lentisco (Pistacia lentiscus), l’Alaterno (Rhamnus alaternus), il Corbezzolo (Arbutus unedo), le Filliree (Phillyrea latifolia e P. angustifolia) ed il Laurotino (Viburnum tinus). Lungo il versante adriatico della Penisola Italiana vi sono tipi di boschi misti nei quali al Leccio ed alle altre sclerofille si associano alcune caducifoglie e principalmente l’Orniello, la Quercia virgiliana, il Carpino nero, il Carpino orientale e l’Acero minore.
Nel Bacino del Mediterraneo attualmente sono rimasti solo pochi nuclei di foresta originaria a sclerofille, in quanto i secolari interventi dell’uomo (taglio, incendio e pascolo) hanno trasformato le antiche selve di Leccio in macchia mediterranea, formata dalle stesse piante della foresta ma con portamento di arbusti o di piccoli alberi.
Anche in Italia la fustaia di Leccio è oggi molto rara e alcuni esempi possono essere osservati in Toscana, nel Lazio (Parco Nazionale del Circeo, Castelporziano), in Campania nel Parco Nazionale del Cilento, in Puglia sul Gargano; altri esempi sono quelli della Sicilia e della Sardegna.
La macchia mediterranea è generalmente a carattere secondario, deriva cioè dalla foresta per degradazione a causa di azioni di disturbo, soprattutto l’incendio, ma vi sono anche macchie primarie, che si affermano in aree in cui i fattori limitanti non permettono una sua ulteriore evoluzione, come accade in situazioni climatiche spiccatamente caldo-aride o lungo i ripidi versanti rocciosi costieri. L’ulteriore degradazione della macchia può condurre alla gariga, tipo di comunità vegetale formata da cespugli di taglia minore rispetto alla macchia e da erbe per lo più annuali.
Per quanto concerne il Leccio, la sua distribuzione in Abruzzo, nella fascia costiera, oltre al nucleo di Torino di Sangro Marina (oggi protetto con l’istituzione di una Riserva Naturale Regionale), è presente nel Chietino qua e là lungo le falesie ed è frequente nei fossi trasversali alla linea di costa. Mentre è praticamente assente dal resto della costa, il Leccio vegeta, con popolamenti radi rupicoli o spesso in consorzi di macchia anche molto estesi, in diverse zone interne della fascia collinare arenacea e gessoso-calcarea, nei valloni e gole (Gole del Salinello, Vallone d’Angri, Gole di Popoli, Gole di San Venanzio e del Sagittario, Valle dell’Orta, Valle dell’Orfento, ecc.), lungo le vallate aperte ed i bacini interni (Valli del Trigno, del Sangro, del Vomano; Conche di Capestrano, di Sulmona e del Fucino).
In Abruzzo sono state riconosciute quattro associazioni di lecceta, tutte di tipo misto con presenza di caducifoglie e, a seconda della fascia fitoclimatica, a diverso grado di termo-xerofilìa o mesofilìa.
Tra le tipologie di macchia mediterranea, la più diffusa è quella a dominanza di Mirto e Lentisco, presente nei segmenti costieri e subcostieri, oltre che nelle valli fluviali. Di grande interesse fitogeografico è la macchia alta a Ginepro coccolone (Juniperus macrocarpa), insediata in poche località nei dintorni di Casoli.
Nei valloni subcostieri del Chietino, in condizioni microclimatiche di elevata umidità, sono inoltre presenti profumati nuclei di boscaglia a dominanza di Alloro (Laurus nobilis), che si affermano sui substrati arenaceo-conglomeratici.
Le pinete a Pino d’Aleppo
I Pini sono tra gli alberi più caratteristici dell’ambiente mediterraneo, anche se relativamente rari allo stato spontaneo. L’uomo li ha frequentemente utilizzati nei rimboschimenti creando pinete artificiali e li inserisce, come piante ornamentali, nei viali, parchi e giardini. Contengono inoltre vari principi attivi come olii essenziali, resine e glucosidi.
In Italia i Pini mediterranei autoctoni sono il Pino d’Aleppo (Pinus halepensis subsp. halepensis) e il Pino marittimo (Pinus pinaster); introdotto invece da tempi remoti è il Pino domestico (Pinus pinea).
Il Pino d’Aleppo ha un areale a baricentro centro-est-mediterraneo. In Italia è indigeno almeno per alcuni settori, come la Liguria, l’Umbria, la Puglia, la Sicilia e la Sardegna, ma sono emerse evidenze che provano il suo indigenato anche per altre regioni come l’Abruzzo, il Lazio e la Campania.
Alto fino a 20 m, ha tronco flessuoso che, quando cresce sulle pendici rupestri, diventa contorto; anche la chioma è irregolare e rada. Caratterizzato da grande frugalità e resistenza al caldo e alla siccità, è indifferente al tipo di substrato, pur mostrando una predilezione per il calcare. Il suo optimum climatico è quello della fascia mediterraneo-arida con prolungata siccità estiva, ma è diffuso anche nelle aree mediterranee meno calde e aride. In qualche caso penetra nell’area submediterranea come in Umbria, fra Terni e Spoleto, dove raggiunge, per l’Italia, le quote più elevate, intorno a 800-850 m.
Le pinete a Pino d’Aleppo sono molto aperte e luminose, e ciò spiega l’esuberante sviluppo della macchia al loro interno. Pinete molto belle sono quelle del Gargano, insediate in aree rupestri su terreni poco evoluti ed in forte pendenza; quelle affermatesi sugli antichi cordoni dunali del Mar Jonio tra la Puglia e la Basilicata; quelle della Sicilia e della Sardegna.
In Abruzzo il Pino d’Aleppo è presente lungo tutta la costa e nella fascia collinare, dove è stato ampiamente diffuso dall’uomo. Nel settore collinare subcostiero si insedia, con nuclei bel strutturati, sui substrati arenacei delle paleoscogliere.
La pineta più conosciuta, che è solo in parte seminaturale ed è interessata da reiterati interventi di impianto antropico, è quella della Riserva Naturale Regionale “Pineta Dannunziana” di Pescara.
A tale proposito, si ricorda che l’antica ed estesissima pineta del litorale pescarese (il “bosco del Salino”) era un tempo fonte di reddito anche per la resina che forniva. Nel XVII secolo la pineta fu purtroppo sacrificata dagli spagnoli per approntare le difese della fortezza di Pescara.
Non dimentichiamo che il Pino d’Aleppo possiede una grande virtù: le sue pigne sono “serotine”, hanno cioè la possibilità di rimanere chiuse per molti anni e di aprirsi e disseminare sotto l’azione del fuoco; per riprodursi, quindi, si avvantaggia degli incendi! Un esempio è rappresentato dalla esuberante disseminazione e successiva ricolonizzazione del Pino d’Aleppo (vera e propria esplosione di vita vegetale) nelle Gole di Popoli dopo il devastante incendio di alcuni anni fa.
Le pinete a Pino nero
I Pini (genere Pinus, famiglia Pinaceae) sono ampiamente distribuiti, con un centinaio di specie, soprattutto nella fascia a clima temperato e temperato freddo dell’emisfero boreale; in Italia ne sono presenti, allo stato spontaneo, una dozzina.
In questo ampio panorama un posto di primo piano merita il Pino nero, per la sua particolare ecologia, per la sua storia che si perde nel lontano passato e per il ruolo svolto nell’ambito degli interventi di rimboschimento attuati sulle pendici aride e rupestri delle nostre montagne.
Il Pino nero è una specie collettiva (gruppo di Pinus nigra) comprendente diverse popolazioni con scarsa differenziazione morfologica ma forte frammentazione geografica. Il suo areale, a carattere relittuale, comprende i settori montani dell’Europa meridionale (Alpi Orientali, Pirenei, Carpazi) e del bacino del Mediterraneo (Appennino centro-meridionale, Sicilia, Corsica, Dalmazia, Nordafrica).
E’ un albero alto fino a 20 m, slanciato, con chioma piramidata e rami a volte “a bandiera” (meccanomorfosi da azione eolica) o, negli individui vecchi, appiattita. È specie elio-xerofila, resistente all’aridità del suolo, indifferente al tipo di substrato litologico. Per le sue doti di frugalità e di crescita rapida è stato sempre privilegiato nelle opere di rimboschimento e nelle alberature stradali.
Le popolazioni appartenenti a questa entità, molto diffuse prima delle glaciazioni quaternarie, con l’avvento dei periodi freddi hanno subito una frammentazione con drastica riduzione del loro areale fino alla situazione attuale che si presenta con una serie di “razze geografiche” disgiunte, che edificano diversi nuclei di pinete a carattere mediterraneo-montano.
Gli Autori distinguono varie sottospecie di Pinus nigra, ciascuna legata ad un determinato settore geografico. In Italia vengono riconosciute due sottospecie: P. nigra subp. nigra (Veneto, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Lazio, Abruzzo, Molise e Campania) e P. nigra subsp. laricio (Toscana, Calabria, Sicilia), presente anche in Corsica.
In Abruzzo il Pino nero è autoctono in alcune località del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, del Parco Nazionale della Majella e della Riserva Naturale Regionale di Zompo lo Schioppo, con popolazioni riferibili a Pinus nigra subsp. nigra var. italica (noto come Pino nero di Villetta Barrea).
Queste pinete naturali, a struttura piuttosto aperta, mostrano un temperamento spiccatamente pioniero, insediate come sono su suoli poco evoluti, con frequenti affioramenti rocciosi lungo i ripidi versanti delle montagne calcaree. Il sottobosco è costituito soprattutto da arbusti eliofili, come i Citisi (Cytisus spinescens, Cytisophyllum sessilifolium), piccoli cespugli come la Poligala falso-bosso (Polygala chamaebuxus) e diverse specie erbacee xerofile.
Se allo stato spontaneo il Pino nero nella nostra regione è, come abbiamo accennato, estremamente localizzato, è invece molto comune nelle pinete di origine antropica, che sono diffuse in tutta la fascia montana della regione, dove le opere di rimboschimento attuate con questa Conifera sono state frequenti, incoraggiate dalla sua facilità di attecchimento in ambienti xerici con suolo povero.
Le mughete
Il Pino mugo (Pinus mugo subsp. mugo), con la sua lunga e peculiare storia ed il vigore e la bellezza che la sua vegetazione esprime, è indubbiamente una delle piante legnose più prestigiose della nostra Penisola.
Ha un portamento di arbusto, con ramificazioni numerose fin dalla base e che, a causa del peso della neve, sono prostrate e poi ascendenti. Circa le sue utilizzazioni, si sottolinea che il mugolio, un liquido oleoso e profumato impiegato nelle affezioni respiratorie, si ottiene per distillazione da gemme, foglie e rametti.
È legato ai terreni calcarei e dolomitici e ad un clima freddo e il suo areale comprende i principali massicci montuosi dell’Europa: Pirenei, Alpi, Appennini, Carpazi e Balcani. Comune sulle Alpi, è invece molto localizzato sugli Appennini centro-settentrionali (Emilia-Romagna, Toscana, Lazio e l’Abruzzo).
Nella nostra regione forma ampie e spesso impenetrabili boscaglie al di sopra del limite della vegetazione forestale, sulla Majella (qui noto con i termini dialettali di “chiappine” e “ciuppine”) e, più sporadicamente, sui monti del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.
Nella compagine della mugheta sono presenti anche vari arbusti quali il Ginepro nano (Juniperus communis var. saxatilis), l’Uva orsina (Arctostaphylos uva-ursi), il Sorbo alpino (Sorbus chamaemespilus) e la Dafne spatolata (Daphne oleoides).
La sua presenza costituisce una notevole e significativa testimonianza dei mutamenti climatici avvenuti durante e dopo le glaciazioni. Diverse migliaia di anni fa, quando il clima era più rigido, l’areale appenninico del Pino mugo era molto più esteso, in accordo con le sue esigenze ecologiche di specie microterma. Dopo l’ultima glaciazione, le mutate e meno favorevoli condizioni climatiche hanno ristretto sempre più la sua distribuzione fino alla situazione attuale. Nel passato, alla rarefazione del Pino mugo in Appennino ha contribuito pesantemente anche l’uomo con gli incendi e il pascolo. Le mughete appenniniche, quindi, rivestono un significato residuale/relittuale, come vestigia di una antica e ben più affermata vegetazione, che si è potuta conservare fino ad oggi grazie alle particolari condizioni ambientali dei nostri massicci montuosi.
I boschi ripariali e paludosi (saliceti, pioppeti, frassineti, olmeti, ontanete)
Tra gli ambienti naturali scelti dai cittadini a scopo ricreativo o turistico, ai primi posti ci sono quelli caratterizzati dalla presenza di bosco e acqua: quindi laghi, stagni, corsi d’acqua limpidi e puliti con vegetazione arborea che fa da cornice. Non a caso anche gli artisti ed i letterati si sono sempre interessati a tali ambienti che vengono proposti come habitat tranquilli e sereni.
Di notevole interesse paesaggistico, la vegetazione che si afferma lungo le rive degli ambienti umidi è anche un tassello qualificato e qualificante del mosaico della biodiversità regionale.
Boscaglie e boschi igrofili sono ancora piuttosto frequenti lungo i corsi d’acqua, anche se, purtroppo, spesso si tratta di cenosi molto degradate e, a volte, ridotte a sparuti nuclei o finanche a semplici filari di alberi lungo le sponde.
Si tratta di un complesso di comunità vegetali che comprendono le boscaglie di Salici ed i boschi di Pioppi, Frassini, Olmi e Ontani. Queste fitocenosi sono condizionate non tanto dal clima o dalla localizzazione geografica, quanto dal regime delle acque.
Dal punto di vista strutturale, e con riferimento al tratto planiziale, la vegetazione legnosa dell’ambiente ripario è costituita da diverse comunità vegetali che si insediano in fasce parallele al corso d’acqua, a partire dal limite esterno dell’alveo di morbida.
In sintesi, nell’Italia peninsulare la fascia più interna è formata da saliceti arbustivi, principalmente Salice da ceste (Salix triandra), Salice rosso (S. purpurea) e Salice bianco (Salix alba). A questa segue una fascia con saliceti arborei a dominanza di Salice bianco, Pioppo nero (Populus nigra) e Pioppo ibrido (Populus x canadensis). Con la fascia a questa esterna la vegetazione assume caratteristiche più propriamente forestali, con i pioppeti a Pioppo bianco (Populus alba), i frassineti a Frassino meridionale (Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa) e le ontanete a Ontano nero (Alnus glutinosa). Un’altra cenosi forestale poco frequente è quella caratterizzata dalla dominanza dell’Olmo minore (Ulmus minor subsp. minor). Il pioppeto, il frassineto e l’olmeto preludono ecologicamente ai boschi delle pianure alluvionali con Farnia (Quercus robur subsp. robur) e Carpino bianco (Carpinus betulus). Un altro gruppo di fitocenosi è quello dei boschi e boscaglie paludose, tipiche delle aree allagate, come le comunità a dominanza di Ontano nero e di Salice cinereo (Salix cinerea).
Nel tratto collinare dei corsi d’acqua, su suoli alluvionali prevalentemente limoso-sabbiosi ma anche ghiaiosi, vi è dominanza del Salice rosso (Salix purpurea) e del Salice ripaiolo (S. eleagnos), cui si associa spesso il Salice dell’Appennino (S. apennina); quest’ultimo è subendemico italico, presente dal Canton Ticino alla Sicilia.
Nel tratto montano, infine, su suoli prevalentemente sabbioso-ghiaiosi con presenza di sassi e massi di varie dimensioni, assume una sempre maggiore importanza il Salice ripaiolo, che nei segmenti di alveo a morfologia più tormentata diventa quasi esclusivo.
Negli impluvi della fascia collinare, a volte in contesti calanchivi, si afferma una boscaglia meso-igrofila di Olmo minore (Ulmus minor subsp. minor) che, in ambiti mediterranei, si arricchisce di Alloro (Laurus nobilis).
Tale complesso di vegetazioni arboreo-arbustive è presente in Abruzzo lungo la gran parte dei corsi d’acqua, anche se purtroppo i vari consorzi vegetali coprono quasi sempre esigue superfici.
Tra le fitocenosi arboree della nostra regione le più diffuse sono quelle a Salice bianco, tra le arbustive vi sono i saliceti a Salice rosso, a Salice da ceste e a Salice ripaiolo. Meno diffusi sono i pioppeti a Pioppo bianco. Rari sono poi diventati i frassineti, gli olmeti, le ontanete ed i querco-frassineti.
I boschi di specie esotiche
Da diversi anni la diffusione di alcuni alberi esotici e in particolare della Robinia (Robinia pseudoacacia) e dell’Ailanto (Ailanthus altissima) è diventata invasiva e ormai queste specie formano purtroppo, anche nella nostra regione, veri e propri boschi.
La Robinia è una alloctona naturalizzata originaria del Nordamerica, introdotta in Europa agli inizi del 1600 da Jean Robin (al quale è dedicato il nome generico), curatore del Giardino Botanico del re di Francia, come pianta ornamentale. Per la sua facile coltivazione, la sua elevata capacità di propagazione per stoloni e il legno duro particolarmente adatto alle utilizzazioni in agricoltura, è stata diffusa spesso in modo indiscriminato, per cui è diventata invasiva.
Anche l’Ailanto è una alloctona naturalizzata, originaria della Cina. Introdotto in Italia verso la metà del 1700 nell’Orto Botanico di Padova, è stato ampiamente diffuso nella seconda metà del 1800 per l’allevamento della farfalla “Sfinge dell’Ailanto” finalizzato alla produzione della seta, che però risultò di qualità scadente. La diffusione dell’albero non si fermò, in quanto l’Ailanto è stato poi utilizzato per consolidare le scarpate stradali. Poiché si propaga molto facilmente per via vegetativa, è diventato anch’esso invasivo.
Sia la Robinia che l’Ailanto tendono a sostituire, nella aree degradate, la vegetazione autoctona e edificano spesso fitocenosi arboree nelle quali dominano nettamente, lungo le scarpate, ai margini delle strade e in ambiti di pertinenza dei boschi ripariali e dei terrazzi fluviali. La diffusione interessa ormai vasti territori in tutta l’Italia, spesso imprimendo anche una inedita fisionomia ai paesaggi antropizzati. Si tratta di comunità a determinismo antropico, il cui sottobosco è ricco di specie nitrofile, con residui di flora autoctona che ricorda le formazioni sostituite dal robinieto e dall’ailanteto.
Conclusioni
“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto”
Henry David Thoreau
Gli alberi e i boschi hanno sempre rivestito un ruolo centrale sia nella vita dell’uomo che nel divenire degli ecosistemi. Ogni albero è legato a un mito e nello stesso tempo possiede per l’uomo un’utilità pratica. Come annota Nalini M. Nadkarni, presidente dell’International Canopy Network, «gli alberi ci donano un senso di appartenenza, di radicamento».
Oggi, ai tradizionali settori delle scienze botaniche si affianca una nuova disciplina, la Neurobiologia vegetale che, come sottolinea Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio Internazionale che si occupa di tale disciplina, studia come le piante superiori siano capaci di ricevere segnali dall’ambiente circostante, rielaborare le informazioni ottenute e calcolare le soluzioni adatte alla loro sopravvivenza. Pur nella consapevolezza che le piante sono prive di un sistema nervoso, la neurobiologia vede in esse degli organismi che, in modo del tutto peculiare, possono scegliere, apprendere e memorizzare. Le piante superiori non solo riceverebbero stimoli dall’ambiente esterno, ma sarebbero anche in grado di rielaborarli e trasmetterli al resto della pianta o ad altre piante distanti attraverso cambiamenti nella morfologia e nel metabolismo.
Si tratta di una rivoluzione anche nell’ambito del pensiero scientifico che, orientando i nostri comportamenti verso un rispetto molto più profondo e concreto nei confronti del mondo vegetale, conduce ad una legittimazione dei diritti delle piante.
In tale contesto, si è sempre più consapevoli che nei sistemi biologici risultano fondamentali i rapporti di rete, ben più duraturi e concreti rispetto ai singoli individui. E’ un punto di vista che ha radici lontane e di cui, nel campo della geobotanica e della biogeografia, uno dei padri è stato Alexander von Humboldt che, già nella seconda metà del XVIII secolo, concepiva una natura fatta di connessioni e di unità.
E’ essenziale, quindi, la relazione, e il sistema-bosco ne rappresenta uno dei più convincenti e straordinari esempi.
Nota bibliografica
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