Il bosco e i paesaggi culturali
Il bosco e i paesaggi culturali
Tratto da:
CIANFAGLIONE K., 2011 – Il Bosco e i paesaggi culturali. In: Pignatti S., Aree protette e ricerca scientifica – Da: Atti del Convegno dell’Accademia dei Lincei (Roma, 16 Ottobre 2009) Pisa, ETS Ed. 127-134.
Pensando al passato spesso si evocano paesaggi incontaminati, invece oggi si può costatare che l’uomo ha provocato un impatto sull’ambiente riducendone man mano la naturalità in favore dell’agricoltura, del pascolo e degli insediamenti umani, in particolare agendo sulle foreste. Le interferenze tra uomo, ambiente e paesaggio non sono state costanti nel tempo, ma si sono differenziate a seconda dei luoghi, degli usi e delle condizioni socio-economiche incontrate; di conseguenza il paesaggio ha sempre subito mutamenti e trasformazioni. Ogni area del pianeta ha risentito direttamente o indirettamente delle attività antropiche, tanto che secondo gli ultimi dati di Greenpeace e riportati da Bignami (2006), soltanto il 10% delle terre emerse del pianeta oggi è ancora ricoperto da grandi foreste, percentuale che però scenderebbe vertiginosamente se considerassimo solo le foreste “vergini”. Il resto, sempre secondo i dati di Greenpeace, è stato profondamente alterato se non distrutto negli ultimi 80 anni. Stiamo distruggendo le preziose foreste del pianeta ad un ritmo accelerato: si stima che ogni due secondi venga distrutta un’area di foreste grande quanto un campo da calcio. Metà delle foreste perdute negli ultimi diecimila anni sono state distrutte solo durante gli ultimi ottanta e la metà di questa distruzione è avvenuta a partire dagli anni settanta. Le foreste perdute significano specie perdute; il tasso di estinzioni di piante e animali si considera moltiplicato di mille volte rispetto al ritmo precedente alla comparsa dell’uomo sulla Terra. L’Europa ha distrutto quasi del tutto le sue foreste, al punto che solo il 6,4% del totale sono rimaste come erano originariamente e rappresentano solamente il 3% delle attuali foreste del pianeta. In Italia non è rimasto quasi nulla d’intatto, anzi il territorio se non è urbanizzato, è caratterizzato quasi totalmente da formazioni secondarie. Tutti i nostri boschi sono stati in qualche modo manomessi nel tempo, in maniera più o meno evidente, anche quelli ritenuti meglio conservati (fustaie, boschi con alberi vetusti e con legno morto, ecc.), alcuni esempi di essi sono rimasti nella Foresta Umbra (Parco Nazionale del Gargano), nel Bosco della Martese (Parco Nazionale Gran Sasso-Laga), nell’alta valle del Sangro (Parco Nazionale d’Abruzzo) e a Sasso Fratino (Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi). Lentamente, forse un giorno avremo altri boschi con caratteristiche di quelli primari, se la natura verrà lasciata libera di compiere il suo corso.
Spesso l’opinione pubblica non è sufficientemente consapevole e informata sulle fragilità del nostro territorio, sullo stato dell’ambiente, sui processi dinamici naturali; infatti spesso molti luoghi vengono definiti impropriamente come “incontaminati”, “selvaggi” o “immacolati”, anche se invece l’ambiente naturale è alterato rispetto alle condizioni climatogene o a quelle originarie.
Da noi, i primi boschi a scomparire sono stati quelli planiziali e quelli legati all’acqua, seguiti da quelli collinari; però anche quelli di montagna sono stati eliminati o seriamente compromessi. Il paesaggio secondario così ottenuto, successivamente è andato ancora modificandosi nel tempo; fra i tanti casi si possono citare gli alberi camporili (Campetella et. al, 2002) e monumentali che in Italia centrale stanno scomparendo nonostante le leggi esistenti. Altrettanto grave è la scomparsa di molte varietà orto-frutticole antiche che andrebbero invece salvaguardate (anche se in fondo, alloctone), non solo per il vano concetto di storia o di paesaggio, ma soprattutto per evitare una pericolosa erosione genetica, nonché una triste perdita di sapori, tutte conseguenze dell’industrializzazione dell’agricoltura (Denaeyer, 1997) e delle moderne pratiche intensive.
Per questo, quando si parla di tutela del paesaggio storico-culturale si esprime un concetto a mio avviso vuoto e relativo, perché essendo cambiato nel corso delle varie epoche storiche, esso è indefinito e indefinibile a causa della sua mutevolezza. A dimostrazione di quanto detto, prendiamo ad esempio i cambiamenti avvenuti nella costa adriatica, che Gabriele D’Annunzio definiva nella sua poesia “Ipastori” come: “Adriatico selvaggio, che verde è come i pascoli dei monti.”, vediamo invece che oggi essa è grigia e conurbata da nord a sud. Altro esempio è quello del paesaggio di Camerino (Alto Maceratese), il cui scenario attuale è ancora piacevolmente estetico, caratterizzato da colture estensive a cereali, eppure fino a trenta anni fa era diverso per la forte la presenza della vite (Vitis sp.) maritata ad aceri (Acer campestre) od olmi (Ulmus minor), come si può notare dalle fotografie riportate da Pedrotti (2009). Anche delle scotanare, piantagioni di Cotinus coggygria per la produzione di tannini, in passato molto diffuse nel camerinese (Reali, 1869; Venanzoni, 1985), oggi restano soltanto tracce fra i cedui degradati di roverella (Quercus pubescens). Seguendo questa linea a ritroso, possiamo definire con certezza che andando sempre più indietro nel tempo, il paesaggio era maggiormente caratterizzato dal bosco, difatti già nell’800 molti scienziati e artisti del mondo si preoccupavano della distruzione ambientale e paesaggistica dovuta all’eccessivo taglio di alberi, anche di grandi dimensioni, che stavano logorando l’ambiente e il paesaggio (come Reali, 1871-1876), tanto che Marchesoni (1954) definiva “miserevole” lo stato dei boschi di Camerino.
Tutti questi paesaggi succedutisi nel tempo, sempre nel medesimo punto geografico, sono da considerarsi paesaggi storici o culturali, da quello storicamente più antico di wilderness sino a quello agrario, che pure è cambiato nel tempo rendendosi più indeterminabile; quindi come si può preferire un paesaggio piuttosto che un altro?
Il ritorno del bosco, essendo in fondo un processo reversibile ed ostacolabile, non è né invasivo né da temere ed evitare, ma al contrario è l’ineluttabile segno dei tempi moderni, la paziente e lenta riconquista degli spazi sottratti dall’uomo che, una volta abbandonati per vari motivi, vengono per forza di cose riconquistati dalla natura e portati pian piano tramite le successioni secondarie al massimo grado di naturalità (concetto oggettivo). D’altronde le specie caratteristiche degli stadi secondari sono arrivate a occupare quei posti solo perché il bosco naturale è stato fatto scomparire, alle volte sono persino specie arrivate da lontano per mezzo degli animali domestici o dell’uomo, di conseguenza sono condannate lentamente a lasciare il passo ad altre formazioni e poi al bosco, se ne è possibile il ritorno. Le aree protette devono tutelare la natura, quindi dovrebbero garantire la massima naturalità dei luoghi (Raimondo, 2005); ciò sta a significare il climax in senso lato, quindi normalmente in Italia equivale a tutelare il bosco. Ciò non vuol dire che nel contempo non possano essere individuate e destinate altre aree orientate alla conservazione delle diverse formazioni secondarie, ricche in altre specie. Ad ogni modo bisognerebbe lasciar tornare il bosco al più possibile, visto che il nostro territorio è dominato soprattutto da formazioni secondarie, garantendo altresì una salvaguardia integrale, ove il bosco possa maturare a fondo, sviluppandosi fino allo stadio della fluttuazione e assicurando così il ciclo del legno, essenziale per l’ambiente, in modo da non rimanere sempre costretto ad un diffuso cespuglieto. Solo così potremo riavvicinarci un dì a quegli ambienti e paesaggi propriamente definiti come selvatici, naturali, etc., di cui sentiamo forte la mancanza e il bisogno.
Attualmente la superficie boscata in Italia è in aumento, ma parallelamente è in fortissimo aumento anche il ricorso al taglio che ne inibisce una degna maturazione, basta vedere i boschi dell’Appennino, che spesso non fanno neanche in tempo a rigenerarsi che già vengono tagliati e costretti a macchia, anche nelle aree protette o nel demanio. Quando un bosco viene tagliato, manomesso o ripulito, perde la sua essenza di sistema naturale, venendo trasformato e ridotto a una sorta di coltivazione per il legname, seppure semiselvatica. Molto spesso le coltivazioni arboree anche di tipo intensivo e monospecifico, vengono confuse con i boschi che però non sono solo dei semplici insiemi di alberi, ma un complesso sistema di interazioni tra specie e ambiente.
I boschi più delicati continuano a diminuire, come quelli igrofili, planiziali e talvolta anche quelli collinari. La stessa cosa vale per altre formazioni primarie come quelle acquatiche (di acqua dolce o salata), per quelle costiere e dunali, che sono quasi completamente scomparse in Italia.
Numerosi sono i motivi per la salvaguardia della diversità biologica e del funzionamento degli ecosistemi, bisognerebbe però divenire più consapevoli del valore della massima naturalità e del fatto che i boschi non vanno per forza ripuliti, che i boschi manomessi sono quelli più soggetti a danni ecologici (come la desertificazione, l’erosione, le valanghe, gli incendi, etc.) e che l’aspetto non molto curato dei cedui abbandonati non deve essere considerato come segno di degrado ma anzi di una certa ritrovata naturalità, riscontrandovi alcuni caratteri delle foreste primarie, come rami rotti, legno in disfacimento, alberi seccati in piedi, etc. (Pedrotti, 1993); anche per tali motivi il problema forestale va emancipato dal solo problema agronomico, perché molto più complesso e articolato.
Se non sussistono interessi economici incombenti, le aree sono destinate inevitabilmente e fortunatamente a rinaturalizzarsi a seguito dell’abbandono. In tal caso sovente restano tracce indelebili del passato (muretti, terrazzamenti, resti di case, etc.), tanto che lo scrittore e geografo trentino Aldo Gorfer, nel suo libro I segni della storia parlava di “paesaggi fossili” (Gorfer, 1982); inoltre anche gli ambienti riconquistati dal bosco costituiscono testimonianza storica, dei mutamenti avvenuti nelle condizioni socio-economiche.
La biodiversità si manifesta più esattamente nei sistemi forestali che non in quelli agrari (Gellini et al., 1992), non possiamo pertanto pretendere di proteggere e congelare tutto l’attuale territorio con formazioni secondarie a discapito del bosco, soprattutto se ci basiamo su criteri troppo soggettivi, rischiando di fare solo del giardinaggio diffuso, forzando ulteriormente i ritmi della natura. Non possiamo agire verso le formazioni secondarie solo per un senso di affezione o perché le riteniamo esteticamente più valide o a causa della vistosità delle fioriture o perché attribuiamo loro dei ricordi e un senso storico-culturale; che sono certamente valori aggiunti ma non essenziali.
Per quanto possibile, quindi, si possono conservare aree secondarie ben definite e limitate, così da garantire una certa discontinuità ambientale, evitando contemporaneamente la scomparsa di alcune specie tipiche e alle volte rare o appariscenti. Questa operazione deve però essere parallela e non precludere la riformazione del bosco che, se alle volte può ospitare meno specie, è sicuramente una formazione più naturale e quindi con un valore ecologico più elevato; per il resto si può cercare di inibire il ritorno del bosco in alcune aree, garantendo così le diverse fasi secondarie (praterie, brughiere, macchie, pre-bosco, etc.), ma solo su superfici molto limitate e accuratamente selezionate. Se al contrario, venissero privilegiate le formazioni secondarie come i prati, rischieremo in un tempo forse non troppo lontano, di trovarci erroneamente a proteggere oltre che le archeofite infestanti dei campi di grano, anche le neofite come le formazioni ad ailanto (Ailanthus altissima) e robinia (Robinia pseudoacacia), che possono trovare un certo ruolo all’interno di paesaggi fortemente antropizzati, ma che fuori da tali contesti andrebbero combattute perché invasive e dannose.
Per quanto riguarda le coniferaie, queste piantagioni composte da specie non invasive sono state effettuate per frenare l’erosione e favorire la successione secondaria, cioè la rinaturalizzazione di aree degradate a causa di un dissennato e pressante uso del suolo. Se questi rimboschimenti sono stati ben effettuati e ben gestiti (cioè non hanno subìto tagli, ripulimenti, incendi, etc.), sull’Appennino stanno funzionando bene; per tale motivo, non possiamo promuovere campagne per la loro eradicazione, anche perché risulterebbero grandi danni e lacune per i monti. Bisogna aspettare che pian piano queste formazioni volgano verso stadi più naturali; si possono sperimentare tagli diradativi che però non hanno una funzione peculiare, dato che questi alberi vengono fatti schiantare a terra con facilità da eventi naturali, come neve, vento e ungulati, che le preferiscono per sfregarcisi contro, consumandone la corteccia alla base e provocandone la morte. Inoltre non dobbiamo credere che i nostri monti e i nostri ecosistemi siano così estranei alle conifere; certamente alcune specie utilizzate a volte sono esotiche, ma d’altra parte queste potrebbero essere delle aree destinate ad una tutela ex-situ di specie minacciate, quali ad esempio Abies nebrodensis, Cedrus libani e C. atlantica, inoltre altre piantumazioni si potrebbero considerare come risarcimento a seguito della distruzione o riduzione dei popolamenti originari di tali specie.
Come per le formazioni secondarie, anche queste coniferaie possono entrare in quel circuito di aree per concorrere ad una discontinuità ecosistemica e paesaggistica, contribuendo ad impreziosire esteticamente il paesaggio ed ecologicamente gli ecosistemi, senza considerare che, anche per esse, si potrebbe ormai parlare di utilità, peculiarità storico-culturali e bellezza.
Nel mondo nulla rimane per sempre com’è, il paesaggio naturale non è statico e a maggior ragione il paesaggio antropico, che è ancor più dinamico perché soggetto ai cambiamenti socio-economici in atto, anche se i nuovi paesaggi possono risentire dei vecchi. Si dovrebbe tutelare il paesaggio e le formazioni vegetali che lo caratterizzano da una ulteriore perdita di naturalità, senza pretendere di congelarlo, impedendo cioè che esso aumenti in naturalità secondo i passi obbligati dalle dinamiche naturali, quando non sussistono più le condizioni per continuare a sfruttare economicamente quei luoghi. È improponibile e oneroso per la collettività tutelare e cristallizzare paesaggi non naturali, perché antistorico (Pedrotti, 2008), dispendioso e illusorio, mentre le aree destinate a rimanere in condizioni naturali vanno portate al livello di massimo ordine ambientale (Pignatti, 1994), ossia di naturalità. Ne discende che bisognerebbe proteggere basandosi su criteri oggettivi, quindi l’ideale sarebbe preferire la massima naturalità, e parallelamente tutelare superfici limitate a vegetazione secondaria. Il risultato sarebbe pertanto un mosaico di aree a dominanza boschiva con stadi secondari, che possono essere usati anche a scopo produttivo.
Al di la del dibattito bosco – paesaggio culturale, molto grave rimane il problema dell’urbanizzazione del territorio. Prima di preoccuparci per il ritorno del bosco, si dovrebbe pertanto agire evitando la prepotente e dilagante antropizzazione del panorama che divora il verde e i migliori campi coltivabili, distruggendo paesaggi naturali, storico-culturali e produttivi, solo per creare abitati e periferie anonime, gabbie di cemento e asfalto non a misura d’uomo, dopodiché non resterebbe più nulla da godere e da proteggere. Non è possibile evitare l’inesorabile ed auspicabile aumento di naturalità dovuto alle mutate condizioni socio-economiche attuali che hanno portato all’abbandono dei campi, dei monti e dei paesi. Tutti gli scienziati dovrebbero anzi concentrare le loro forze per evitare che l’urbanizzazione e l’inquinamento non corrompano ulteriormente ed irreversibilmente il paesaggio, la natura e la salute pubblica; dunque, in confronto a queste problematiche, lo comprendiamo da soli, il resto del dibattito rimane una questione secondaria.
Bibliografia
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